Complice la chiacchierata fatta coi soliti amici, mi è tornata in mente una vecchia conoscenza, con cui ho ancora qualche saltuario contatto.
Precursore del boom informatico degli anni 2000, questo ragazzo (ora quarantenne), che chiameremo convenzionalmente Antonio, già a inizio 1997 aveva fiutato l’affare. Da buon smanettone, si è messo a studiare l’HTML, lanciandosi poi nel web design per conoscenti e amici.
A quei tempi i siti erano statici, praticamente costituiti da foto, area per i contatti via mail, una paginetta con info varie ed eventuali, e poco altro.
Non c’erano i social network, non c’era YouTube, e la parola “blog” era nota soltanto a poche migliaia di americani. Andavano forti le newsletter e si stavano affermando i forum di discussione online.
Antonio, che ai tempi frequentavo spesso, riuscì a convincere molta gente della necessità di avere un sito. Dal barista sotto casa al meccanico in cui portava la macchina abitualmente, passando per la piccola azienda per cui lavorava il fratello, l’amica cantante di media fama nazionale, il corso di judo a cui era iscritto il nipotino, etc etc.
Antonio, armato di buona volontà, partita IVA (aperta dopo qualche mese di lavoro in nero), tanta voglia di istruirsi, portò a casa dei bei soldini. Sì perché, in quegli anni, certi lavori venivano pagati. E anche bene.
Antonio pensò di poterne fare il suo lavoro primario e pensò anche di lasciare la fabbrica.
Del resto, tra il ’97 e il ’98, questo Paese era più ricco, gli esperti di Internet erano pochi, e c’era una rincorsa ad avere il sito, anche se spesso era più un trofeo per dirsi moderni, che non uno strumento usato adeguatamente.
Purtroppo i sogni di Antonio vennero traditi dal rapido diffondersi di un virus tremendo, che si riassume nella fatidica affermazione:
No, guarda, non spendo soldi per farmi il sito. Me lo fa mio nipote gratis, che tanto è sempre al computer.
L’ode al dilettantismo, e ovviamente al risparmio sparagnino.
In questo modo, e col diffondersi capillare di connessioni e computer, tutti hanno improvvisamente guadagnato il fantomatico nipote (o cugino, o amico etc etc) capace di smanettare e di mettere su un sito. Magari brutto, magari appoggiato a orride piattaforme piene di spam, ma gratuito.

Ovviamente questa abitudine si è diffusa in tutti i settori creativi, partendo dalla grafica, passando per l’editoria e la musica.
Ed è così che abbiamo grafici bravi che fanno la fame, perché chiedere il giusto compenso per un lavoro viene ritenuto truffaldino (“Sa, mio nipote questo banner me lo fa per cinque euro!“).
Abbiamo anche ricchi cantanti che assumono ragazzi a poche decine di euro per montare palchi e per gestire l’impiantistica audio, o come diavolo si chiama in gergo tecnico. Piuttosto che pagare una società seria, nonché tutelata da infortuni sul lavoro, si preferisce ingaggiare il conoscente di turno, amico dell’amico dell’amico.
E che dire della categoria dei fotografi? Piuttosto che investire 100 euro per uno shooting con un professionista, oramai sempre più aspiranti modelle/i attrici/attori (etc etc) si affidano all’amico con la reflex, spesso totalmente incapace. I risultati si vedono, su alcuni portali di settore. Scatti ridicoli, roba da far sembrare le selfie su Instagram dei capolavori.
Ok, forse posso saltare la parte che riguarda il mancato ingaggio di editor e impaginatori capaci, preferendo invece il tizio che da anni bazzica il settore, senza magari essersi mai aggiornato, ma che fa un prezzo conveniente, e magari dà anche una spintarella per entrare di straforo in una qualche antologia X, fatta per arrotondare lo stipendio.
Poi i dilettanti siamo noi autoprodotti, sia chiaro…
Ma abbandoniamo quest’ultima polemica.
Il punto è che qui è passato il concetto che certi lavori (che spesso, come abbiamo detto molte volte, non vengono nemmeno ritenuti tali) non meritano di essere pagati dignitosamente.
Una legione di cugini e nipotini smanettoni ha distrutto generazioni di bravi professionisti, che devono giocare al ribasso su tariffe già da fame, pur di portarsi a casa qualche incarico. Almeno per rientrare dalle spese.
La cosa curiosa, e qui torno ad Antonio, è che il dilettante può diventare professionista. Il mio esempio (esempio reale, se non si fosse capito) lo dimostra.
Tutti abbiamo diritto a imparare un lavoro e farlo diventare una professione. Questo non è dilettantismo, è sviluppo e crescita personale.
Una cosa un po’ diversa dal nipote che sta su Facebook e che quindi, per una strana proprietà transitiva, viene considerato alla stregua di un web designer o di un grafico.

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L’Italia è un paese demente. Nel senso che non tiene la crapa, la memoria. Negli anni 90 io ero un ragazzetto ma mi ricordo bene che era vietato dire di essere operai.
Era roba di cui vergognarsi, un lascito di una scalata sociale mai avvenuta. Roba da perdenti.
D’altronde lo yuppismo anni 80 aveva prodotto una bella serie di politici superbi, una classe imprenditoriale formatasi sull’Asta Tosta di Drive-In e tutta una serie di professionisti negli ambiti “artistici” che avevano fatto tabula rasa del passato(e non lo sapevamo, ma pure del futuro, dato che si sono annidati come despoti sul trono e hanno cannibalizzato il mercato).
Poi quando è ritornato in auge il termine operaio(naturalmente per dargli un “importanza” sociale da farlo contento mentre lo si inculava), come se gli operai se ne fossero andati da qualche parte, il nuovo paria della società è diventata la produzione intellettuale. Perché l’operaio lavora mentre chi produce intellettualmente no. Perché ormai nell’epoca di internet, la condivisione, la pirateria, tutti fanno tutto e tutto è gratis.
Perché è facile toccare con le mani un manufatto mentre quello che ci sta dietro se non si ha un certo tipo di sensibilità o intelligenza no(basta pensare che se pubblichi ebook, la gente fino a che non vede il libro stampato non capisce che sei uno scrittore).
E quindi c’è questa ignoranza di fondo, dove la musica dal vivo o si balla e porta a consumi di alcool che aumentano il fatturato oppure non funziona, dove il libro o si legge al cesso, ahhh l’odore della carta anche se in realtà l’odore è quello della merda oppure vuol dire scrivere le sturiellett sul blog come mia nipote di 8 anni, dove abbiamo stronzi che pensano che con una reflex e due tutorial su youtube si possa fare fotografia che voglio vedere se c’era ancora la pellicola, con la relativa spesa, stavi tutto il giorno a fare foto del belino, dove c’è gente che fa la demente su youtube e fa ridere i polli e diventa attore(attore ‘sta fava aggiungo) senza aver fatto nemmeno un giorno di laboratorio di teatro alle superiori.
La cosa peggiore è che tutta questa gente, questi wannabe, ha talmente una voglia matta di avere quei 15 minuti di Warhol, da piegarsi tranquillamente a 90°, accettando con avventatezza ogni tipo di proposta, sminuendo il lavoro che sta dietro ad una produzione intellettuale fatta come si deve. Dimostrando ignoranza e una scarsa coscienza sociale e lavorativa. Ma pure artistica.
Perché se vuoi veramente fare l’arte, qualunque tipo di arte, se la tua urgenza si sacrifica tranquillamente per due spicci vuol dire che quello è. Arte da due soldi. E potrai fare quello che vuoi, ma sarai sempre un artista da due soldi.
Siamo in una specie di versione distorta del punk, solo che là ci sarà stata l’ignoranza ma c’era una necessità sociale dietro, qua c’è l’ignoranza e la voglia di farla venire fuori a prescindere. Cioè la scalata non è più sociale ma è allo Star System. Siamo messi male male.
Ecco un bel commento con livore.
Ma sapete perché? Non tanto per me (che certo, mi piacerebbe un sacco campare con la mia “arte” a chi non piacerebbe), ma per le persone di cui ho stima e vedo che si sbattono a creare roba di qualità.
Cioè ragazzi, a me vedere gente tipo te Alex o Davide Mana, che non ci campa con la scrittura(che anche solo vedendo i contenuti vostri dei blog è lapalissiana la qualità) o gente tipo Stefano Di Marino che deve scrivere 700 romanzi l’anno per campare mi girano i coglioni.
Analisi spietata, ma lucidissima.
La domanda è: c’è un punto di ritorno? La mentalità può essere cambiata?
Io dico di no, perché le nuove generazioni non mi sembrano più coscienti di quelle vecchie. Però voglio sbagliarmi.
Lo voglio moltissimo.
Andare in Germania o in Olanda a fare i lavapiatti: è l’unica soluzione che vedo.
Per carità, se si deve mangiare si fa di tutto.
Io ambirei, per esempio, a fare l’operatore ecologico.
No, non è una battuta.
Un mio amico grafico, anche piuttosto bravo, ha dovuto trasferirsi a Londra proprio a causa di tutti questi motivi. Gente che non pagava, clienti che ripetevano la menata del “tanto mio nipote lo farebbe meglio con meno soldi. Inutile dire che a Londra ha trovato una realtà molto più seria.
Strano vero?
Beato chi può andarsene. Non avessi responsabilità di altro genere, ci penserei anch’io.
Credo di averle viste tutte, dopo aver sentito di gente che chiede pareri legali al nipote che studia Diritto al liceo. Anche nel campo delle traduzioni, c’è sempre il furbacchione che si fa ridere dietro da mezza Europa, perchè lascia il lavoro al cugino… che, insomma, l’ha studiato alle superiori ed è stato per 2 week-end a gironzolare nel West End!
Ultimamente anche i lavori manuali, che un tempo almeno erano pagati, cominciano a venire intaccati. La gente preferisce un lavoro pessimo di fai-da-te, una pezza, piuttosto che un lavoro ben fatto e correttamente pagato ad un professionista. Manca proprio l’idea di investimento, in Italia, manca una prospettiva sul lungo termine. Contenere le spese a scapito della qualità, per poi lamentarsi della concorrenza; magari estera, che rosicchia quote di mercato.
Che poi credono che la gente non se ne accorga, invece è proprio il contrario.
E difficilmente il lettore ti fa passare la scarsa professionalità, quindi il risparmio nell’ingaggiare dei dilettanti è davvero aleatorio.
Come diceva Prezzolini “in Italia il genio è umiliato mentre l’idiota è lodato.” Questo è l’unica nazione occidentale in cui le competenze (titolo accademico, professionalità o anzianità di lavoro) non vengono riconosciute. Nel mio campo (l’informatica) qualsiasi smanettone può essere mio pari nonostante io sia perito informatico e ingegnere informatico e lavori in questo campo da 16 anni. Sul lato artistico e la stessa cosa: per dire, in Italia si può avere una cattedra di educazione musicale a scuola con il solo esame di solfeggio, mentre persone con il diploma di composizione devono mendicare una supplenza.
Tragico, ma è così.
Difficile però farsene una ragione.