Sabato ho visto The Shape of Water.
Non ho la forza, le capacità e le necessità per recensirlo. Nota a margine: credo che la parola “recensione” dovrebbe recuperare autorevolezza, visto che oramai ogni pitecantropo armato di connessione al Web si elegge a recensore, spesso non avendo nemmeno una conoscenza basilare della lingua italiana.
Comunque, stiamo sul pezzo: The Shape of Water è un filmone. È la rivincita del fantastico, quel fantastico capace però di parlare a chi di questo genere è a digiuno. In questo sta la forza del film di Del Toro: parlare una lingua universale – quella dell’amore, dell’empatia, di una storia ben narrata – ma utilizzando al contempo la fantasia.
Perché noi, appassionati di mostri, fantascienza, fantasy e chi più ne ha più ne metta, amiamo chiuderci nelle nostre nicchie e prendere come un affronto qualunque “invasione” da parte del mondo esterno.
Poi però ci lamentiamo perché nessuno legge i nostri libri, perché in Italia non girano più film di genere, etc etc.
Premettendo che ciascuno – anche gli idioti – ha diritto a esprimere la propria opinione, in questi giorni mi sono fatto una bella scorpacciata di #massimiesperti italiani del fantastico che definiscono The Shape of Water un film “brutto”.
Brutto perché è “buonista e compiaciuto”.
Brutto perché ha/è una storia d’amore.
Brutto perché ammicca al grande pubblico generalista (che infatti l’adora).
Non vorrei sembrare maleducato, ma queste critiche mi sembrano sesquipedali minchiate.
Però sono minchiate figlie dei nostri tempi, dove la parola “buonismo” viene usata a sproposito, confondendola con bontà, e coi buoni sentimenti. Narrare storie positive, parlare di amore, non sono attività necessariamente stucchevoli. C’è chi riesce a farlo toccando le corde giuste, senza scomodare cliché, senza ricorrere ai trucchetti semplici del romance.
Del Toro ovviamente fa tutto questo in modo eccellente.
E la sua storia d’amore ha per protagonisti gli ultimi, i solitari, i mostri – se vogliamo usare questa parola. Solo che che questi protagonisti non si muovono al ritmo della musica del pietismo, bensì cercano una rivalsa, un’anima, un motivo per essere felici. O almeno per provarci.
E, mi ripeto e concludo, raccontare tutto ciò attraverso il linguaggio del fantastico, come facevano gli antichi parlando di miti e di leggende, è una grandissima vittoria per tutti.
O almeno dovrebbe esserlo, perché poi ci sono gli altri, quelli che ce l’hanno col lieto fine, probabilmente – ma è solo un’ipotesi – perché oramai sono aridi dentro.
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Un film toccante, è l’unico aggettivo che reputo all’altezza. Buona giornata.
Io la chiamo la “sindrome del piedistallo”. Colpisce questi tristi e squallidi figuri che si sono scavati la fossa cercando di essere più tranchant e più sprezzanti degli altri. Si trasmette per condivisione sui social media e genera altre patologie, più o meno olezzanti, via via che il livello di imitazione si abbassa e la sintassi italiana svanisce sullo sfondo. Facci caso, sono sempre gli stessi a iniziare e si comincia a sentire l’eco della platea vuota.
Demolire ciò che viene più o meno universalmente riconosciuto come bello, se non bellissimo, dovrebbe rendere queste persone fighe. O almeno così credono loro (qualche guru dei social ha le sue colpe per aver fatto passare questo messaggio). A me mettono solo tristezza.