Il concetto l’ha ben espresso Tiziano Sclavi col suo primo Dylan Dog: l’orrore, quello vero, si nasconde nelle pieghe del quotidiano. Con questa definizione Sclavi non intendeva soltanto il semplice concetto che “i veri mostri siamo noi” (che poi spesso è vero), bensì anche il fatto che il ripetersi ossessivo e monotono dei giorni è un anticipo della morte stessa – o forse la morte vivente nel suo senso più metafisico e astratto.
L’estate, stagione che aborro per mille motivi, ha il gran vantaggio di darci l’opportunità di staccare la spina.
Con questa frase fatta – staccare la spina – io non intendo lo svaccare, transumare in una spiaggia affollata a fare balli di gruppo, per sentirsi “normali” come tutti i vacanzieri.
Da molti anni considero il periodo di ferie alla stregua di un’opportunità per mettere il naso dalla mia comfort zone. Fin quando potrò farlo, cercherò di vedere altre culture. Riuscite a immaginare un arricchimento maggiore?
Eppure molti di noi non possono permettersi vacanze all’estero – magari nemmeno vacanze in Italia.
Anche per loro resta però indispensabile scappare dalla comfort zone. A volte basta poco, anche una gita di poche ore, a una cinquantina di chilometri da casa.
Lo scorso anno – conteggiando il tempo come faccio di solito, vale dire da agosto ad agosto – sono rimasto spesso intrappolato nella tela della quotidianità.
Per molti versi è una sensazione rassicurante: tutto va più o meno come sempre, con poche varianti. Perfino le cose negative – guai in famiglia, al lavoro etc – assumono dimensioni note, circoscritte. Affrontabili, in un certo senso, o perlomeno senza imprevisti che peggiorino delle situazioni già pessime.
La quotidianità non è un male, bensì una promessa di oblio.
Nel virtuale – sul Web – le cose vanno ancora peggio. I riti quotidiani ricamano attorno a noi dei microcosmi che sembrano confortevoli, ma spesso sono perturbanti.
Controlla Facebook, controlla Instagram, aggiorna il blog, segui 3 o 4 puntate del serial Netflix del momento.
Spegni.
Riaccendi.
Ripeti.
Beh, la quotidianità eccessiva mi ha colpito duro, in questi ultimi mesi. Mi sono adagiato sia sulle piccole sicurezze che sui problemi. Sono arrivato al punto di pensare che non c’è una vera alternativa allo scorrere veloce (sempre più veloce) del tempo. Mi sono adagiato, lasciandomi cullare dal ripetersi di routine consolidate. In fondo è un po’ come essere in Matrix.
Per fortuna il viaggio in Norvegia, viaggio trascorso per buona parte offline, mi ha sciolto i muscoli, fisici e mentali.
È stato anche bello, tra le altre cose, constatare che esiste un mondo, fuori dalla Salvini-Sfera in cui sembra intrappolato il nostro paese.
Ma restiamo nel discorso più personale e abbandoniamo la politica.
La parte più dura, ora, sarà tentare di non ricascare di nuovo nella mia personalissima “zona del crepuscolo”.
Esistono ottimi romanzi e racconti che usano la quotidianità per nascondere l’orrore, che sia esso naturale o soprannaturale.
Mi viene la raccolta di racconti di Luigi Musolino, Uironda, così come diversi racconti di Samuel Marolla, in particolare il breve ma agghiacciante L’Estraneo (contenuto nell’oramai introvabile Malarazza). Non dimentichiamo poi parte della produzione di Thomas Ligotti, e in particolare alcuni racconti contenuti in Nottuario. Impossibile non citare una sorta di caposaldo di questo filone, quel In una piccola città, di Frank Belknap Long, non a caso ispiratore di uno dei migliori albi di Dylan Dog, La Zona del Crepuscolo.
Ma dall’orrore immaginato a quello concreto il passo è breve.
Il rischio è quello di trovarsi intrappolati in un angolo, come su un ring, mentre la curiosità di vedere cosa c’è là fuori va poco a poco a scemare.
E la morte della curiosità, il venir meno della capacità di ampliare la mente, di accettare l’esistenza di realtà diverse dalle nostre, è uno dei grandi problemi di questo paese.
Ve ne siete accorti?
Io sì.
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Quello che posso dirti è che la vacanza la vedo come te ma sono al momento costretto a viverla come l’hai descritta tu.
La zona del Crepuscolo invece è anche per me uno degli albi più belli di Dylan Dog