Il peso della solitudine è variabile

“Il peso della solitudine è variabile” è una citazione da Attraversami il cuore, una delle mie canzoni preferite di Paola Turci.
Paola che vedrò prestissimo in concerto, con buona pace degli stereotipi che vogliono di scrittori del fantastico come trucidi appassionati di death metal, o qualcosa del genere.
Questa citazione mi dà lo spunto per una semplice riflessione sul mestiere dello scrittore.
Mi riferisco a quelle persone per cui la scrittura è la principale (o l’unica) fonte di reddito, e non di chi scrive a tempo perso. Questi ultimi sono rispettabilissimi, non fraintendetemi, ma hanno dalla loro la fortuna di poter campare di altro, e di considerare la scrittura come una “passione”. Non a caso è così che la definiscono (una passione) – e non hanno torto a farlo.
Invece ci sono pochi pazzi che, in questo infelice paese in cui abitiamo, si ostinano a cercare di campare con la scrittura. Non si tratta soltanto dei romanzieri, anche perché in Italia i romanzieri che vivono con le royalties dei loro libri saranno una ventina al massimo. No, lavorare con la scrittura e campare di essa comprende anche chi scrive articoli su commissione, chi si occupa di content marketing, chi scrive sceneggiature e molte altre categorie di professionisti della parola.

Comunque la si intenda, la scrittura resta comunque un lavoro piuttosto solitario. Anche se il professionista della scrittura ha a che fare con diverse persone (collaboratori, editori, committenti etc), di fatto trascorre la maggior parte del suo tempo con una pagina di Open Office (o di Word, o di Libre Office) da riempire. Ovvero da solo.
Quando le cose extralavorative vanno per il verso giusto, questa solitudine pesa poco. A volte viene addirittura considerata una benedizione, lo status ideale per lavorare.
Quando invece altri problemi ci tormentano, la solitudine diventa una cappa pesante da indossare.

Il professionista della scrittura non ha – salvo eccezioni – la routine del lavoratore comune, che può ammazzare il tempo chiacchierando coi colleghi, davanti alla macchinetta del caffè. Questo può essere un bene, ma in alcuni casi è un male, perché accentua il senso di isolamento.
Sorvolando sulla questione specifica dei problemi personali (chi non ne ha?), l’isolamento si esprime nella sensazione, tra le altre cose, di lavorare alla cieca, per un mondo a cui risultiamo invisibili.

Quello che sto scrivendo interesserà a qualcuno?
Lo starò facendo bene?
Che percezione ha il pubblico del mio lavoro?

Queste sono alcune delle domande che un professionista della scrittura si pone abitualmente.
Essere “social” può aiutare a tastare l’apprezzamento dei lettori, o a rompere questo guscio d’isolamento.
Al contrario, essere troppo social, può trascinarci in un loop che non porta a nulla, se non a infinite, inutili discussioni in cui tutti hanno più ragione di te, “perché sì”.

Questo è il motivo, oltre il mero marketing (che non è una cosa velenosa né ignobile), per cui noi scrittori chiediamo spesso ai lettori di darci dei feedback spontanei. L’ho spiegato in un paio dei manualetti sulla creatività che ho pubblicato (questo e quest’altro), ma il concetto andrebbe ribadito a intervalli regolari, a costo di risultare noiosi.
Ultimamente, come ho scritto su Facebook, mi è capitato spesso di sentirmi dire che sarei gradito ospite a questa o quella fiera, oppure che i manuali che ho appena citato sono stati utili ad alcuni colleghi per trovare degli spunti per tornare a scrivere, dopo periodi di scarsa vena.
Sono attestati di stima molto belli, molto utili.
Anche perché, in linea di massima, io non ho assolutamente la percezione di quanto il pubblico tenga al mio lavoro, se non attraverso il grafico di vendite di Amazon. Che è un fattore importante, ma non certo l’unico.
E forse nemmeno quello davvero indispensabile.


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Un commento

  1. Penso che la scrittura, come qualsiasi altra forma d’arte, non sia un lavoro ma una necessità dell’artista che, però, deve farne lavoro se vuole campare. E, in quest’epoca social, il cercare di fare marketing diventa il lavoro più che la scrittura, finendo spesso in un loop controproducente, soprattutto a livello della creatività.
    Il marketing è sicuramente importante, ma non deve surclassare la scrittura.
    Perché poi, alla fine, a chi scrive interessa scrivere e arrivare al cuore della gente, non importa se pochi o centinaia o addirittura migliaia.
    Certo, mille libri venduti sono soldi che ci permettono di scrivere, ma sono magari due soli commenti, fatti con il cuore, a farci felici.

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